ECCOCI: A TRENT’ANNI DALLA BOLOGNINA DI OCCHETTO

“Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista / Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista”.

L’ultimo grido disperato di Berlinguer –simbolo di un tempo ormai passato- sostituì la lotta di claEccocisse con un moralismo di sinistra, preannunciando la fine: conosceva la corruzione del sistema politico italiano e ancora di più aveva sotto gli occhi la trasformazione del suo partito in un immenso blocco di potere. Nelle alte sfere del partito già da anni si dibatteva sull’opportunità di “andare oltre” il Pci, sempre più incalzato dall’onda lunga del Psi di Craxi. In questo quadro, l’eurocomunismo, la “diversità” italiana e l’allontanamento dai Paesi dell’Est erano tutte formule retoriche per conservare capre, cavoli e consenso.
Al primo colpo di piccone sul Muro di Berlino, “l’Unità” diretta da Massimo D’Alema era già pronta a titolare in favore della libertà e del “giorno più bello per l’Europa”.  Il 12 novembre il segretario del Pci Achille Occhetto, durante la commemorazione per l’eroica battaglia partigiana di Porta Lame a Bologna, dichiarò di «non voler continuare su vecchie strade, ma inventarne di nuove per unificare le forze del progresso»; tra le righe si leggevano nitidamente il cambio del nome, di simbolo, di teoria politica, l’avvicinamento al Psi di Craxi. Nove milioni e seicentomila elettori, e un milione e quattrocentomila iscritti al partito vennero traumatizzati dall’annuncio del “Papa rosso” che dichiarava finita la religione in cui avevano creduto per decenni e rivelava la riorganizzazione della “chiesa”.
All’epoca il Pci era ormai il più grande partito socialdemocratico dell’occidente, ma con un corpo vivo ancora profondamente “comunista” per storia, rituali, identità e, non da ultimo, il simbolo. Il “largo ai giovani” aveva portato al potere splendidi quarantenni come Veltroni, Bersani, Caldarola, Fassino e tanti altri che sarebbero stati gli spietati liquidatori della storia del partito stesso.

LA VERGOGNA

“I trafficanti di saponette  / Mettevano pancia verso est  / Chi si convertiva nel novanta  / Ne era dispensato nel novantuno”.

Il lungo dramma terminò il 3 febbraio del 1991 al congresso di Rimini (quello dello scioglimento del Pci) dopo lunghi mesi di dibattiti, sezione per sezione, in cui il trauma collettivo si espresse in modo lacerante. Iscritti con alle spalle vite da “rivoluzionari di professione” non presero più nessuna tessera, si spaccarono famiglie, amicizie, l’idea stessa di una comunità intera andava sbriciolandosi da

Nord a Sud e il nuovo partito lasciava la sua organizzazione pesante e radicata in favore di una più leggera, ricalcando le svolte del Psi nel decennio precedente.
Sentivano ancora di essere tutti intimamente “comunisti”, ma trascinati verso la liberal-democrazia, dalla vittoria di Pirro del capitalismo, fino all’abiura del marxismo da parte degli “infallibili” dirigenti politici, da sempre custodi della “linea giusta”. Ampi settori intellettuali della sinistra, così come tutto il resto dell’arco parlamentare, iniziarono una campagna di demonizzazione della storia stessa dei comunisti in Italia. Milioni di persone, fino al giorno prima fiere del “veniamo da lontano e andiamo lontano” avvertirono il peso della vergogna per avere creduto e portato avanti l’ideale comunista, pervasi da un sentimento di imbarazzo e umiliazione. L’unico rifugio sicuro rimaneva la grande chiesa del “Partito Democratico della Sinistra”: il fuoco era spento, ma solo lì si potevano adorare le ceneri del vecchio Pci.
Dagli anni Novanta, socialismo e riformismo divennero sinonimo di adesione alla nuova religione del mercato neoliberista: il “popolo della sinistra” trangugiò una lunga stagione di privatizzazioni, tagli ai diritti dei lavoratori e guerra che ne alterò lentamente le percezioni; nonostante svolte epocali e scelte politiche terrificanti la destra li continuò a chiamare i “comunisti” e loro stessi continuarono a percepirsi come tali, o quantomeno gli eredi di quella storia.

RICORDI E PENSIERI INTRUSIVI

“I vecc i an tachee / a recurder i teimp andee / i de d’la resistenza / quand’i eren partigian / a’n so brisa s’le cuntee / ma a la fine a s’am catee / in sema al treno c’as purteva / ai funerel ed Berlinguer”.

La nascita del Partito Democratico fu l’atto finale di allontanamento dall’eredità del Pci, di cui però continuava a mantenere il bacino elettorale tradizionale e i resti della struttura organizzativa. Non furono i post-comunisti dei Democratici di Sinistra a inglobare gli eterni democristiani della Margherita, bensì il contrario. Intanto il partito si spostò sempre più a destra arrivando -con Renzi- a raggiungere vette di spregiudicatezza con il Jobs Act di Poletti, il disprezzo della Costituzione e l’alleanza con Berlusconi. Tuttavia, vedere il “grande partito” di nuovo vincente, sotto la direzione di un segretario che portò il PD al 34% alle elezioni europee (come nel 1984), diede vita ad una dispercezione che colpì sia vecchi militanti Pci che giovani cresciuti nel vuoto ideale della Seconda Repubblica.
Negli anni sono stati somministrati anche farmaci specifici per contenere il mugugnare e il rimuginare di elettori più o meno scettici sul continuo spostamento culturale e politico a destra: le agiografie sul “santino” Berlinguer, il ritorno alle “Feste dell’Unità” (senza più il quotidiano) e il rinforzo positivo di ricordi nostalgici delle grandi masse che grigliavano salsicce e riempivano le piazze di comizi. Il tutto edulcorato all’estremo con la rimozione di tutto ciò che, dalla Resistenza a oggi, era stato conflitto, tensione ideale e progetti di società incarnati dal maggior partito della sinistra italiana.
Anagraficamente, questo trauma colpisce i nati dal 1930 al 1970, ovvero chi aveva già diverse primavere sulle spalle o si affacciava all’età adulta sul finire degli anni Ottanta. A loro e ai loro figli, sembra ancora oggi impossibile superare – specialmente nelle urne- l’idea che il Pci sia morto e sepolto e che tutto il suo lascito si sia trasformato nel suo contrario. Allo stesso modo, tutte le sigle politiche di sinistra “derivate” o direttamente imparentate con quella storia non sono state minimamente capace di rinverdirne i fasti nè di ricostruire una sinistra forte.
Chiariamoci, nella sua lunga storia il Partito Comunista Italiano non è mai stato granitico, ma in continua evoluzione: quella che sembrava sempre uguale era l’idea di essere i depositari della verità, i compagni di una grande comunità e l’unica grande chiesa, quella “che va da Che Guevara a Madre Teresa” (sic). E questi concetti base, seppur blandi, sono stati per anni l’esoscheletro su ci si è sviluppata la mutazione genetica Pci-Pds-Ds-Pd.

VULNERABILITÀ E SFIDUCIA

“…Emilia di notti, dissolversi stupide sparire una ad una / Impotenti in un posto nuovo dell’Arci / Emilia di notti agitate per riempire la vita / Emilia di notti tranquille in cui seduzione è dormire”.

Pochi giorni fa, il segretario del Pd Zingaretti ha annunciato di essere pronto a cambiare nome, simbolo e linea politica al partito: una nuova Bolognina, ugualmente calata su iscritti e militanti e ancora più sconclusionata di trent’anni fa; detto questo, non ci vuole un nuovo nome per inglobare il movimento delle “Sardine” e i resti di Sinistra Italiana. Zingaretti si è espresso a ridosso della grande sfida elettorale in Emilia-Romagna e non è un caso: qui il Partito si è fatto Stato, garantendo per decenni un avanzamento sociale capace di redistribuire ricchezza e partecipazione ad ampi strati della popolazione. Mai come oggi quel mondo non esiste più.
Il Presidente Bonaccini è orgoglioso di non avere niente a che fare con quella storia immensa, anzi, rivendica con vigore di avere imbarcato esponenti di centrodestra, industriali e imprenditori al grido inquietante di “amministrare bene non è di destra né di sinistra”, con buona pace del Pci di Gino “Zalèt” Gatta di Ravenna, Giuseppe “Ducati” Dozza di Bologna o Germano “Dièvel” Nicolini di Correggio. L’alto tasso di sfruttamento che va dai magazzini della logistica di Modena e Piacenza agli schiavi del turismo in Romagna ci dice che qualcosa è tramontato. Le mitiche cooperative, che da strumento di emancipazione sono diventate centri di potere politico-economico, mettono la firma sul nuovo corso in cui la ricchezza diventa un affare per pochi e l’uguaglianza un vecchio ricordo, una targa sbiadita per qualche Arci di periferia.
È evidente che dove si lotta aspramente per il lavoro, vedi la vertenza Italpizza a Modena, la “sinistra responsabile e coraggiosa” sta dalla parte dell’industriale o lo candida in lista, vedi Fagioli della logistica Snatt, in lista con Bonaccini. Se lo scontro è dunque tutto interno al liberismo, tra la conservazione di un sistema di potere economico che esclude sempre più persone e un’alternativa uguale, solo più gradassa e reazionaria incarnata dalla Borgonzoni, serve uscire da questo vicolo cieco. Quasi trent’anni di vuoti appelli a “votare contro le destre”, scegliendo sempre e per sempre “il male minore”, hanno portato ad una cronicizzazione della malattia.

LA CURA

Inutile ripeterlo, il Partito Comunista Italiano con la sua immensa storia quarantennale è finito e, anche la sua eredità, in trent’anni è stata completamente scialacquata da chi ne è entrato in possesso. Superare questo trauma significa innanzitutto spiegarsene la ragione senza più affidarsi alla nostalgia o a furbi contrabbandieri di emozioni elettorali.
Ricordare per intero la storia della sinistra italiana, senza agiografie o paura di (ri)conoscerne anche le vicende più ruvide, significa prendere coscienza di ciò che è stato, seguirne le tappe per intero e scoprire che i ricordi sono stati tutti alterati da quel trauma e da chi ci ha ricamato sopra. La Resistenza popolare, armata e determinata a rovesciare il fascismo e il capitalismo che l’aveva mandato al potere. La durezza del dopoguerra con braccianti e operai impegnati a ricostruire l’Italia schivando bastonate e pallottole di polizia, agrari e industriali mentre rivendicavano pane e libertà. Gli anni Settanta della tensione, delle stragi di Stato con i neofascisti come manovalanza per stroncare le rivendicazioni delle masse; un’epoca in cui quel partito prendeva una china sempre più “istituzionale” e nascevano nuove sinistre con le quali il dialogo sarebbe sempre stato dolorosamente conflittuale. Gli anni Ottanta del declino, di un vertice sempre più scollegato dalla base che si fa aristocrazia burocratica e si presenta al volgere del decennio pronto a cambiare bandiera. Ricordare eroi dimenticati come Pietro Secchia, Giuseppe Di Vittorio e Teresa Noce, e ripartire dal Berlinguer ragazzo che giocava a Poker nelle osterie di Sassari e che nei primi anni Cinquanta guidava la gioventù stalinista mondiale.
Da lì, liberati da un peso opprimente tornare a sfidare il futuro, impegnandosi e riprendendo tutto ciò che di buono è stato per iniziare a costruire una nuova storia. Il presente è tornato ad essere brutalmente macchiato da diseguaglianze, guerra, razzismo e sfruttamento: c’è molta, troppa sinistra ancora traumatizzata o –peggio- che cavalca questo disagio per dire che servono “pace sociale”, che “siamo tutti sulla stessa barca” o che ci bastano manciate di diritti civili. No, davvero, gli interessi di un giovane rider non sono quelli dell’azionista di una multinazionale, quelli di un facchino indiano non sono quelli di un ricco dirigente di cooperativa (ossimoro) e quelli di una infermiera a partita iva non coincidono minimamente con quelli di un manager della salute privata. Un operaio che non arriva alla fine del mese con due lavori e una giovane stagista cos’hanno in comune con un industriale e un banchiere?
“Eccoci” titolava l’Unità tenuta in mano da Enrico Berlinguer in una celebre foto d’epoca: i disoccupati, gli sfruttati, i giovani incatenati a bandi e stage, i senza casa e chi è costretto ad emigrare per trovare un lavoro devono solo riconoscersi, sapere di essere orgogliosamente di parte, partigiani e potenzialmente un partito e, senza più traumi o pesantezze, scegliersi la propria bandiera per andarsi a riprendere tutto il maltolto.

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